ALLERGIE

E INTOLLERANZE

14 Febbraio 2022

FACCIAMO CHIAREZZA SULLE INTOLLERANZE ALIMENTARI

Parte 3: che cos’è la celiachia, come si diagnostica e come conviverci 

La malattia celiaca o celiachia o enteropatia indotta dal glutine è una delle più comuni patologie croniche intestinali responsabili di malassorbimento.

La celiachia è una malattia multifattoriale ovvero fattori ambientali, genetici e immunitari hanno un ruolo determinante nella sua genesi.

Secondo una definizione semplice e generica, essa rappresenta un’intolleranza permanente ad alcune proteine presenti in determinati tipi di cereali, in particolare alla gliadina del glutine e proteine similari presenti nel frumento e in altri cereali.

La malattia celiaca non deve essere confusa con l’allergia al glutine perché sono diversi i sintomi che le caratterizzano nonostante sia coinvolto in entrambe il sistema immunitario.

Nella sua complessità, la malattia celiaca sembra essere il risultato di una risposta autodistruttiva verso la mucosa intestinale, a determinati cereali e probabilmente è mediata da un’attivazione immunologica “guidata” da particolari cellule dell’immunità, i linfociti T.

In condizioni fisiologiche il glutine, una volta giunto nel lume intestinale a livello duodenale, viene assorbito dalle cellule intestinali senza recare alcun danno; invece in condizioni patologiche, come accade per la celiachia, la gliadina contenuta nel glutine viene riconosciuta come estranea dal sistema immunitario locale innescando una risposta immunitaria distruttiva nei confronti delle cellule intestinali che non saranno più in grado di assorbire i nutrienti.

Le manifestazioni cliniche presentano un spiccata variabilità individuale in funzione dell’estensione e severità della malattia.

I sintomi della malattia compaiono generalmente tra i 6 e i 12 mesi di vita, dopo che vengono aggiunti nella dieta del bambino alimenti contenenti frumento e derivati: il quadro clinico è caratterizzato da anoressia, diarrea/steatorrea (eliminazione di sostanze grasse non digerite con le feci), vomito, con conseguenti malnutrizione e ritardo dell’accrescimento.

Tuttavia vi sono anche pazienti adulti con sintomi non chiaramente riferibili alla celiachia pur presentando un danno tipico della mucosa intestinale, configurando la cosiddetta “malattia celiaca subclinica o silente”

Il gold standard per una diagnosi esatta di malattia celiaca è la biopsia duodenale in combinazione con la ricerca sierologica degli anticorpi antiendomisio (anticorpi diretti contro la mucosa intestinale) e con una dieta aglutinata ovvero priva degli alimenti che contengono glutine: la risposta a questo tipo di dieta sarà fortemente indicativa di celiachia.

La dieta aglutinata è anche l’unica terapia per la malattia celiaca: riconosciuta la malattia ed eliminato completamente il glutine dalla dieta, i pazienti diventano asintomatici e si assiste ad una rigenerazione della mucosa intestinale nell’arco di alcuni mesi. Nel caso di reintroduzione si osserva una recidiva drammatica della malattia, pertanto la dieta aglutinata deve essere seguita per tutta la vita.

Per dieta senza glutine si intende l’esclusione di frumento, orzo, segale, avena e tutti gli alimenti che li contengono, mentre riso, granoturco, soia e prodotti “gluten free” commerciali diventano i cereali principali della dieta del paziente.

La difficoltà più comune nel seguire la dieta consiste nel fatto che i cereali da escludere sono presenti, anche in minime quantità, in molti prodotti commerciali e in alcuni preparati farmaceutici; l’uso sporadico di sostanze alimentari con piccole quantità di glutine può indurre il ritorno dei sintomi e segni della malattia, compresi i danni mucosali.

Fortunatamente i prodotti senza glutine sono sempre più diffusi e anche ristoranti e simili hanno adeguato i loro menu al “gluten free” migliorando la qualità di vita del paziente celiaco.

 

Francesca d’Errico, biologa nutrizionista

ALLERGIE E INTOLLERANZE

29 Gennaio 2022

FACCIAMO CHIAREZZA SULLE INTOLLERANZE ALIMENTARI

Parte 2: convivere serenamente con l’intolleranza al lattosio

Nella prima parte di questa serie di articoli su intolleranza e dintorni abbiamo discusso di intolleranze in termini generali, in questo articolo, invece, ci concentreremo sugli aspetti fondamentali dell’intolleranza al lattosio, ovvero causa, diagnosi e trattamento terapeutico.

Come precedentemente discusso, l’intolleranza non deve essere confusa con l’allergia, in quanto non vi è nessuna reazione mediata dal sistema immunitario nei confronti delle molecole contenute negli alimenti.

Per comprendere le cause dell’intolleranza al lattosio, vediamo prima cosa succede in condizioni fisiologiche quando assumiamo alimenti contenenti lattosio, un disaccaride (di = due, saccaride = zucchero) formato da una molecola di glucosio e una di galattosio,  presente naturalmente nel latte e nei prodotti caseari in quantità variabili.

In seguito all’ingestione di latte o derivati, il lattosio raggiunge l’intestino dove viene “accolto” dall’enzima lattasi che lo scinde nei due componenti fondamentali, glucosio e galattosio, i quali a questo punto vengono assorbiti dalle cellule intestinali per essere infine utilizzati come fonte energetica dall’organismo.

L’intolleranza al lattosio è proprio dovuta all’incapacità di scomporre il lattosio a causa dell’assenza o della ridotta produzione dell’enzima lattasi.   

Va sottolineato che la “lattasi non persistenza” cioè la riduzione/scomparsa dell’enzima lattasi dall’intestino, è geneticamente determinata e soprattutto è un normale fenomeno che accompagna la crescita dell’individuo: infatti è molto rara nei neonati poiché devono nutrirsi esclusivamente del latte materno e via via più frequente con l’avanzare dell’età, quando, dopo lo svezzamento, il latte non costituisce più l’unico alimento di cui abbiamo bisogno.

Se la degradazione del lattosio non avviene o avviene parzialmente come nel caso dell’intolleranza al lattosio, esso agisce come un lassativo aumentando il contenuto di acqua nell’intestino provocando l’evacuazione di feci liquide (diarrea) e inoltre viene degradato dai batteri intestinali che popolano il colon, in idrogeno, anidride carbonica e altre molecole, generando flatulenza e dolore addominale, tipici sintomi dell’intolleranza al lattosio.

Se in seguito al consumo di latte e derivati si ha la sensazione di gonfiore addominale, flatulenza e altri sintomi che potrebbero essere riconducibili all’intolleranza al lattosio, sarebbe opportuno effettuare una diagnosi certa prima di eliminare a priori alimenti importanti per la nostra dieta. Infatti, non sempre i sintomi gastrointestinali sono causati dalla scarsa funzionalità/assenza dell’enzima lattasi.

I test più comuni e affidabili per misurare la capacità di digerire il lattosio sono il breath test (test del respiro) e il test della tolleranza al lattosio: il primo misura proprio la quantità di idrogeno presente nel respiro dopo l’ingestione di una bevanda a base di lattosio; il secondo misura la quantità di glucosio nel sangue sempre a seguito dell’ingestione di una soluzione a base di lattosio.

Vi è anche la possibilità di analizzare delle piccole variazioni presenti nel gene della lattasi che fornirebbero indicazioni sulla predisposizione a sviluppare l’intolleranza al lattosio; tuttavia l’unico esame che permette di confermarla è l’analisi diretta dell’attività della lattasi attraverso una biopsia dell’intestino tenue.

Quindi se il test conferma l’intolleranza al lattosio, bisognerà rinunciare definitivamente a latte e formaggi? Recenti ricerche, in realtà, confermano che i mal digestori del lattosio possono tollerare fino ad un massimo di 12 g di lattosio al giorno (tenendo sempre in considerazione il grado di tollerabilità personale), una quantità presente in circa 240 ml di latte, mentre i prodotti caseari contengono una quantità di lattosio che varia in base al grado di stagionatura del prodotto, ma in linea di massima è veramente esigua, poiché prevalentemente fermentato dai batteri durante la stagionatura. Ad esempio in un vasetto di yogurt vi sono 5,4 g di lattosio, in una porzione da 100 g di mozzarella di vacca ce ne sono 0,7 g, in 10 g di burro 0,1 g, in una porzione da 50 g di scamorza 0,5 g e in 50 g di parmigiano la quantità di lattosio è addirittura trascurabile.

Inoltre, per non rinunciare al gusto e soprattutto alle insostituibili proprietà nutritive del latte, è possibile assumere il latte delattosato in cui il lattosio è già separato nei suoi componenti principali, glucosio e galattosio.

Dall’intolleranza al lattosio, quindi, non si “guarisce” ma l’unico trattamento efficace che permette di conviverci serenamente consiste nella riduzione, e non necessariamente nella totale eliminazione, del consumo di latte e dei suoi derivati in base al grado di tollerabilità personale.

 

Francesca d’Errico, biologa nutrizionista

ALLERGIE

E INTOLLERANZE

11 Gennaio 2022

FACCIAMO CHIAREZZA SULLE INTOLLERANZE ALIMENTARI

Parte 1: strumenti utili per riconoscere i test inutili

“Ho scoperto di essere intollerante a…”

Ognuno di noi sicuramente ha sentito pronunciare o ha pronunciato questa frase almeno una volta negli ultimi anni, ma davvero le intolleranze sono così numerose e diffuse? Inoltre, quali test per le intolleranze sono realmente utili?

In questa serie di articoli proveremo a fare un po’ di chiarezza in materia di intolleranze, allergie e tecniche diagnostiche scientificamente validate.

Iniziamo col definire, quindi, la differenza tra intolleranza e allergia alimentare: l’intolleranza è una reazione avversa dell’organismo a un determinato alimento che non vede come protagonista il sistema immunitario, al contrario dell’allergia mediata da anticorpi diretti contro uno specifico allergene presente in un determinato alimento.

I sintomi con cui si manifestano infatti sono diversi e di diversa entità, basti pensare che l’ingestione di un alimento a cui si è allergici può portare fino allo shock anafilattico mentre ingerire grandi quantità di lattosio, se ne siamo intolleranti, di certo non avrà conseguenze tanto negative.

I test per la diagnosi delle allergie, prick test e RAST (Radio-Allergo-Sorbent-Test), vengono prescritti dal medico a seguito del riferimento di determinati sintomi che coinvolgono direttamente l’apparato gastrointestinale (dolori addominali diffusi, flatulenza, stipsi, diarrea) e sedi extraintestinali (orticaria, dermatite atopica, asma, anche se meno comune).

Le intolleranze alimentari, come precedentemente accennato, non sono mediate dal sistema immunitario e attualmente le uniche diagnosticabili con test scientificamente validati sono l’intolleranza al lattosio e l’intolleranza al glutine (malattia celiaca): per la prima il test più utilizzato è il breath test, mentre per l’intolleranza al glutine si esegue un test sierologico specifico unito ad un esame istologico (biopsia duodenale). Considerata la vastità degli argomenti, nei prossimi articoli approfondiremo entrambe le intolleranze e i relativi test diagnostici.

Accanto a questi test scientificamente validati, ve ne sono altri senza alcun fondamento scientifico e potenzialmente dannosi a causa delle numerose esclusioni di importanti alimenti che potrebbero portare a pericolose carenze nutrizionali.

Di seguito ve ne sono elencati alcuni tra i più noti, in modo da poter riconoscerli ed evitare spese inutili:

  • test basati sulla ricerca IgG o IgG4 allergene-specifiche: aumenti della concentrazione ematica di IgG o IgG4 contro alimenti o componenti alimentari sono comuni e clinicamente irrilevanti, pertanto il test è inaffidabile (costo medio € 150,00).
  • Test del DNA per le intolleranze alimentari: le perplessità sulla validità di questo test derivano dal tipo di tecnica adottata dall’azienda e dai dati ottenuti che forniscono solo indicazioni probabilistiche facilmente equivocabili e quindi non attendibili (costo medio € 150,00).
  • Test citotossico: uno dei maggiori limiti che presenta questo test è la sua non riproducibilità ovvero l’impossibilità di ottenere lo stesso risultato ripetendolo più volte. Ricordiamo che la riproducibilità di un test è alla base della sua validità (costo medio € 200,00).
  • Analisi del capello, iridologia, kinesiologia e test di bio-risonanza (VEGA ed EAV): non esiste nessun fondamento scientifico a supporto della validità di tali test (costo medio € 120,00).

In sintesi, a fronte del costo non irrisorio, della loro inutilità e potenziale dannosità, in caso di comparsa di sintomi gastrointestinali ricorrenti, sarebbe doveroso evitare di affidare la propria salute a questi test apparentemente rivestiti da un’aura scientifica e piuttosto rivolgersi sempre ad un gastroenterologo.

 

Francesca d’Errico, biologa nutrizionista

Sovrappeso

e obesità

“Sono ingrassato/a!” “devo mettermi a dieta!” tutti almeno una volta nella vita abbiamo pronunciato o sentito pronunciare queste frasi, la maggior parte delle volte però la preoccupazione deriva più dalla nostra immagine, che della salute. Per questo motivo avere più consapevolezza sul perché è importante mantenere una composizione corporea adeguata ci può aiutare a raggiungere il nostro obiettivo quando la motivazione “immagine” viene meno. Il modo più semplice per capire se la quantità di grasso nel nostro corpo è giusta o meno, è il calcolo dell’ indice di massa corporea (IMC). L’indice di massa corporea, infatti, è facilmente calcolabile con la formula: Peso (kg)/ 2 volte l’altezza (espressa in metri).  Ad esempio una donna alta 1,67 metri e con un peso di 57 kg avrà un IMC pari a 20,43 ovvero normopeso. L’ideale per la nostra salute sarebbe quindi rimanere nel range del normopeso (18-24,9).

Tuttavia l’IMC ci fornisce un dato approssimativo sulla quantità effettiva di grasso corporeo e massa muscolare: basti pensare che la massa muscolare, a parità di volume, ha un peso maggiore del tessuto adiposo (la ciccia), quindi persone con una massa muscolare ben sviluppata otterranno un risultato falsato.

Tornando al quesito principale: in che modo la quantità di grasso corporeo influenza la mia salute?

Per rispondere al quesito è necessario innanzitutto pensare al tessuto adiposo non come un tessuto inattivo, con l’unica funzione di accumulare energia sotto forma di grasso, ma come un vero e proprio organo che svolge la sua attività producendo sostanze (tra cui molecole segnale) e regolando il metabolismo attraverso queste. Quando la quantità di grasso rientra nei range fisiologici le sostanze prodotte dal tessuto adiposo contribuiscono al corretto funzionamento dei metabolismi. Al crescere della massa grassa, quindi, avremo un’aumentata produzione di queste sostanze da parte del tessuto adiposo. Le grandi quantità di molecole prodotte causano una serie di reazioni a catena dovute al tentativo del nostro organismo di far fronte ai numerosi segnali e molecole, inviati dal tessuto adiposo. Tuttavia questo tentativo porta ad una serie di altre complicazioni ed è proprio per questo motivo che ad un’elevata quantità di grasso corporeo sono associate diverse patologie, fino ad arrivare alla sindrome metabolica e malattie cardiovascolari nei casi di obesità più severi.

Come posso avere un’idea ben chiara della mia composizione corporea?

Rivolgendoti ad uno specialista che abbia la strumentazione adeguata, in particolare l’impedenziometro. Attraverso l’esame bioimpedenziometrico è possibile stimare la percentuale di massa grassa e massa magra e di conseguenza avremo un piano alimentare studiato su misura della nostra situazione.

Cosa posso fare per prevenire tutto questo?

La scelta più saggia è di iniziare ad approcciarsi da subito a ad uno stile di vita sano in cui non devono mancare attività fisica e un’adeguata alimentazione che rispetti le proprie esigenze nutrizionali.

 

Stile di vita sano? Attività fisica? Adeguata alimentazione? Non so da dove iniziare!

Che tu sia normopeso o sovrappeso, e vuoi cominciare a condurre uno stile di vita sano ma non sai dove iniziare, rivolgiti ad un nutrizionista. Lo specialista  ti aiuterà a raggiungere i tuoi obiettivi creando un percorso su misura per te.

i cibi della stagione

Il broccolo è uno degli ortaggi invernali: è ricco di vitamina A e C utili rispettivamente per il funzionamento della vista e del sistema immunitario e K per la coagulazione del sangue. Sviluppa poche calorie ed essendo ricco di fibra ha un ottimo potere saziante. Tuttavia la migliore cottura sembra essere quella a vapore per circa 5-6 minuti poiché, inattiva i gozzigeni ma non il sulforafano, antiossidante e protettivo verso alcuni tumori tra cui quello alla mammella.

Il kiwi oltre ad essere ricco di microelementi quali calcio, fosforo, magnesio e potassio, è soprattutto un’ottima fonte di vitamina C che sostiene il sistema immunitario. Ne contiene addirittura più dell’arancia: 85 mg contro 50 mg (per 100 g). I kiwi sono ricchi di fibra che oltre a favorire la regolarità intestinale, rallenta l’assorbimento degli zuccheri in esso contenuti e quindi l’immissione del glucosio nel circolo ematico rendendolo pertanto un frutto a basso Indice Glicemico adatto anche a chi è affetto da diabete.

La lenticchia è uno dei legumi più apprezzati per il suo sapore deciso, è un’ottima fonte di fibra ed è ricco di aminoacidi essenziali, quali lisina, isoleucina e leucina. La lenticchia spesso viene utilizzata in sostituzione di alimenti carnei come fonte di ferro ma non essendo ferro “eme” non è altamente biodisponibile ovvero assorbibile. Il ferro “eme” è presente nell’emoglobina e quindi nel globulo rosso. I legumi, tutti i vegetali in generale, latte e derivati non avendo i citati componenti non possono contenere ferro eme!

Un piatto come pasta e lenticchie è un’ottima scelta nutrizionale poichè si realizza un profilo aminoacidico completo. Gli aminoacidi essenziali non sono prodotti dal nostro organismo, pertanto devono essere necessariamente introdotti con la dieta. Sono importati perché senza di loro non avviene la sintesi delle proteine. Aggiungendo un filo di olio extravergine di oliva, miscelato magari con dell’olio di girasole, assumiamo anche acidi grassi monoinsaturi dell’olio di oliva e polinsaturi dell’olio di girasole.

Le vie degli zuccheri sono infinite

Perché sarebbe meglio evitare di bere bevande zuccherate durante il pasto e terminarlo con i dolci?

Iniziamo col dire che lo zucchero presente nelle bevande è il saccarosio, il comune zucchero da tavola, costituito da glucosio e fruttosio.

Consideriamo un pasto, come il pranzo, costituito da un primo, un secondo, verdure e olio di oliva per condire il tutto. Il glucosio ricavato dalle fonti di carboidrati entra nella cellula epatica (fegato) dove viene modificato e trasformato alla fine di una lunga serie di passaggi biochimici in ATP, molecola vitale per la cellula. La quantità stessa di ATP comunica se è necessario produrne altro oppure no.

Con questo tipo di pasto abbiamo soddisfatto il fabbisogno calorico relativo al pranzo ed è stato raggiunto il valore di carica energetica di ATP ottimale per la cellula. Con una serie di biochimismi l’ATP stesso blocca un enzima chiave che regola il metabolismo del glucosio in modo che se dovesse arrivarne altro non verrà trasformato in ATP.

Tuttavia arriva altro zucchero perchè abbiamo deciso di accompagnare il pasto con una bevande zuccherata e/o di concluderlo con una bella ed abbondante fetta di torta cremosa.Il glucosio e fruttosio, a questo punto in eccesso, vengono fattientrare nell’epatocita (cellula epatica) e trasformati con altri passaggi biochimici in acidi grassi e infine in trigliceridi. I trigliceridi, infatti, sono la forma di riserva energetica preferita dal nostro organismo, immagazzinati nelle cellule adipose (la ciccia) e nel fegato. Le cellule adipose accolgono sempre chi bussa alla loro porta ma difficilmente permettono l’uscita.

L’organismo umano si è evoluto in modo che l’eccedenza venga “messa da parte” per una eventuale futura carenza energetica, ad esempio una carestia o un lungo periodo di digiuno: in questo caso verranno attaccate le riserve di grasso.

È bene sottolineare che la cellula non fa differenza tra il glucosio proveniente dalla pasta e dal pane e il glucosio delle bibite zuccherate o dei dolci perché si tratta sempre della stessa molecola. Ciò che conta sono le quantità: se alla cellula servono 100 molecole di glucosio per raggiungere la sua carica energetica di ATP ma gliene arrivano 200, lei userà le 100 che le servono e destinerà le altre 100 al “magazzino” (riserve di grasso) per ogni evenienza.

Dunque, come possiamo sapere se le quantità di cibo che mangiamo ogni giorno oltre a formare ATP contribuiscono in larga misura anche ad arricchire il tessuto adiposo? Ce lo dicono i vestiti, lo specchio o la bilancia? Anche, ma non sono sempre affidabili. La risposta ce la fornisce il nostro metabolismo basale ovvero un valore numerico che indica le calorie (l’energia) di cui necessita il nostro corpo per svolgere le attività quotidiane: se le calorie assunte quotidianamente superano ogni giorno quelle del nostro metabolismo basale è certo che l’eccedenza si trasformerà in grasso.

Quindi, se quello di accompagnare un pasto con una bevanda zuccherata o terminarlo con un dolce accadesse saltuariamente, non avremmo grandi ripercussioni sul bilancio energetico e sull’accumulo di grasso. Tuttavia bisogna ammettere che, anche tra i non più giovanissimi, ciò accade quasi quotidianamente.

Francesca d’Errico, biologa nutrizionista.

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